sabato 7 gennaio 2017

step04-i colori nel mito

i colori nel mito 


Non trovando miti o legende sull'albicocca ho cercato miti su colori simili, come per esempio l'arancione-rosso del fuoco.

Per questo motivo ho scelto il mito di Efesto:

Considerato il fabbro degli Dei, Efesto è infatti il Dio del Fuoco, della metallurgia, il protettore dei fabbri, degli artigiani degli scultori e dei metalli. La leggenda narra che Era concepì sia Ares che Efesto senza la partecipazione di suo marito Zeus, per punirlo dei numerosi tradimenti con dee e mortali. Alla nascita di Efesto però sua madre rimase terrorizzata dal suo brutto aspetto e decise così di scraventarlo giù dall’Olimpo. Per fortuna il piccolo Dio fu raccolto da Teti e Eurionome, due ninfe del mare che si presero cura di lui, decidendo di allevarlo in una caverna. Pur essendo brutto e deforme, il povero Efesto, già all’età di nove anni dimostrò di possedere abili capacità nel forgiare i metalli. Fu così che cominciò a creare splendidi gioielli di inestimabile valore e bellezza, soprattutto per coloro che l’avevano amato e accudito.
Quando Era venne a conoscenza dell’abilità del figlio non si fece scrupoli a recarsi da lui per ordinargli di costruire un trono di ineguagliabile bellezza e valore. Ovviamente nel presentarsi ad Efesto, Era non rivelò la sua identità convinta dell’impossibilità che il figlio potesse riconoscerla. Il Dio fabbro invece comprese quasi immediatamente di trovarsi di fronte alla donna che lo aveva ripudiato e accettò subito il lavoro commissionatogli, giurando tra sé e sé che avrebbbe sfruttato l’occasione per potersi vendicare.
Ben presto Efesto costrui per Era un trono tutto d’oro e di incredibile fattura, tanto bello quanto maledetto. Infatti il suo scopo era quello di imprigionare per sempre la Dea che una volta seduta non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Si narra che, per potersi liberare da tale maleficicio, Era dovette promettere in sposa a suo figlio Efesto la bella Afrodite e che successivamente alla sua liberazione permise al Dio del fuoco di poter tornare nell’Olimpo insieme a tutte le altre divinità. Naturalemnte Afrodite non riuscì mai a accettare la decisione di Era e tradì frequentemente il marito; si racconta infatti che ella non volle mai congiungersi carnalmente con il Dio del fuoco e che, presa con la forza, si smaterializzò dal letto.
Successivamente pare che Efesto abbia abbandonato volontariamente l’Olimpo per rifugiarsi nelle profondità del Monte Etna, stufo dei continui sbeffeggiamenti (da parte degli altri) dovuti al suo aspetto fisico e all’infedeltà della moglie. A lui si deve la fabbricazione di stupendi oggetti come il Tridente di Posiedone, il Carro del Sole appartenente ad Apo Apollo, splendidi elmi, palazzi ed altro ancora.

http://www.mitiemisteri.it/fantasy/efesto.html 


oppure possiamo accostare il colore albicocca al giallo-rosso del sole e ricordare il mito di Helois (o Elios): 
Il dio Elios era ritenuto una divinità universale; dio della luce e del calore, che guidava il suo carro solare lungo il cielo preceduto dalla sorella Eos, l’aurora. Giunto alla sera si riposava e gli veniva dato il cambio dall’altra sorella Selene.

Elios conduceva il carro del sole e, poiché i suoi raggi giungevano dovunque, era invocato come testimone in tutti i giuramenti. Elios era figlio di Iperione e di Teia, fratello di Eos (Aurora) e Selene (Luna), apparteneva alla generazione degli dèi pre-olimpici.
Svegliato da un gallo animale a lui sacro, ed annunciato da Eos, Helios conduceva ogni giorno la sua quadriga per il cielo. Il cocchio era d’oro ed i quattro cavalli alati (Piroide, Eoo, Etone e Flegone) emettevano fuoco dalle narici. Partiva da un palazzo sito nella Colchide (o nel paese degli Etiopi) in oriente, per arrivare ad un altro palazzo nel Paese delle Esperidi in occidente. Ivi giunto, staccava i cavalli per farli pascolare nell’Isola dei Beati. Egli stesso si accomodava in una grandissima coppa (un battello d’oro), opera di Efesto, che sulle onde dell’Oceano lo riportava rapidamente al punto di partenza.
Aveva come moglie Perseide: ninfa, una delle tremila Oceanine, figlie del titano Oceano e della titanide Teti. Perseide, sposa di Elios, era la madre di Eete, Circe e di Pasifae. Ebbe anche altri figli da altre ninfe: da Rodo ebbe sette figli, gli Eliadi, da Climene le Eliadi e Fetonte. Possedeva nell’isola di Trinacria sette greggi di pecore e sette mandrie di buoi dalle corna d’oro, custoditi dalle Eliadi. Queste mandrie furono uccise e mangiate dai compagni di Ulisse e allora Elios, sdegnato, chiese che i colpevoli venissero puniti, minacciando di ritirarsi sotto terra se non gli fosse stata data soddisfazione. In epoca più tarda Elios fu confuso con Apollo.

Inoltre  ho trovato un interessante articolo sulla possibile nascita di 'un mito del vesuvio e delle albicocche':
''Non mi meraviglierei se un racconto mitologico narrasse di un dio minore, Vesuvio, che innamoratosi di una ninfa di nome Crisommola (o Crisomele) la rapì portandola nel suo regno bollente e fumoso. Probabilmente un mito siffatto si concluderebbe con lo sventurato tentativo di fuga della ninfa che, quasi raggiunta dal dio infuriato, fu trasformata da qualche dea benevola, affinché potesse sfuggirgli, in un bell’albero dai pomi dorati e profumati. Ed ecco spiegata l’origine delle albicocche del Vesuvio.
La mitologia invece non ci ha lasciato storie di passione e metamorfosi che riguardino il dorato frutto; (crisommola, il nome dialettale dell’albicocca utilizzato in Campania, viene appunto dal Greco chrysusmelon, pomo dorato) quello che sappiamo è che le pendici del Vesuvio e gli innumerevoli comuni che là sono sorti sono la terra d’elezione di un’albicocca che non ha uguali, per profumo, dolcezza, gusto. Un’albicocca, ho scritto, ma avrei dovuto dire molte albicocche, giacché decine e decine sono le cultivar che in quest’area crescono, che ne hanno fatto in passato una mecca fruttifera: se 2/3 della produzione nazionale provenivano dalla Campania, il 75% delle albicocche della Campania proveniva dall’area vesuviana. La fertilità del suolo vulcanico, la sua ricchezza di minerali e soprattutto di potassio sono il regalo del Vesuvio a questa terra; e se passione e metamorfosi non ci vengono raccontati dal mito, passione e metamorfosi, in negativo, sono oggi ciò che l’area vesuviana vive. I cambiamenti climatici, il non fare sistema e rete tra i produttori, l’assenza di incentivi e sostegno da parte delle istituzioni sono tutti elementi che mettono a rischio i migliori prodotti di questa terra che il vulcano ha benedetto e maledetto, a fasi alterne, nella storia. Poi c’è il flagello della Sharka, una malattia devastante per l’albicocco (ma anche per il ciliegio, il mandorlo, il susino) che non è possibile curare e costringe a estirpare le piante colpite, come ci racconta Vincenzo Egizio, che nel vesuviano coltiva albicocche, ma anche pomodorini del piennolo, San Marzano, papaccelle, con il metodo della lotta integrata e l’intenzione di convertirsi al biologico.
Della profusione di varietà originarie di questa zona, dalle più precoci, che maturano a metà maggio, come l’Aurora, alla Ciccona, dalla Vitillo all’amatissima Pellecchiella, fino alle ultime, raccolte fino a luglio, come la Barracca, molte se ne trovano nelle terre di Vincenzo; persino una varietà antica pressoché scomparsa, la Setacciara, che qui si cerca di preservare. Varietà precoce, un tempo molto richiesta come ogni primizia, ha una pelle setosa e sottile che con la maturazione tende a spaccarsi, per cui, benché buonissima, non ha l’appeal necessario per i mercati, alla ricerca di frutti dall’aspetto impeccabile, uniformi per colore e pezzatura. E’ proprio la richiesta di frutti regolari e dalla bella apparenza che condanna alla scomparsa molte varietà tradizionali e incoraggia l’introduzione di nuove tipologie belle a vedersi ma dal sapore deludente. In più, si ricercano frutti che siano più resistenti e sopportino meglio gli spostamenti e la lunga esposizione sugli scaffali.
Però la magnifica Pellecchiella, tra le albicocche più gustose in circolazione, torna utile all’industria quando si tratta di produrre confetture e prodotti trasformati, dato che aggiunge dolcezza a frutti di altre varietà che di per sé ne hanno poca.Insomma, tra virosi come la Sharka e condizioni climatiche avverse come quelle di questo 2013, le albicocche vesuviane attraversano anni difficili e la produzione va riducendosi; il percorso per l’attribuzione del marchio IGP  europeo si è arenato da anni; gli agricoltori più responsabili fanno ciò che possono, gli altri imboccano strade più facili. Eppure si dice che chi non ha mai assaggiato un’albicocca del Vesuvio non abbia mai realmente gustato un’albicocca. E, da consumatrice affezionata, posso garantire che c’è molto di vero. Un frutto ricco di profumi e di dolcezza, dal gusto intenso, succoso, vellutato, che annuncia l’estate già alla vista, che andrebbe protetto e valorizzato nei suoi tanti biotipi e non citato solo quando conviene per farne una bandiera senza in alcun modo battersi per esso e per la sua sopravvivenza. Che, insomma, meriterebbe un mito tutto suo, ma non ce l’ha.
La ninfa Crisommola potrebbe finire per lasciare queste terre in cui felicemente prospera da secoli. E forse sarà allora che nascerà il mito, ad evocare la scomparsa di una prelibatezza e di un grande patrimonio naturale e culturale, per negligenza, incuria e anche un po’ per la nostra disattenzione di consumatori''.
Di Vincenzo Egizio
http://www.campaniaferax.it/2013/06/25/le-albicocche-del-vesuvio-il-mito-che-non-ce/

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